Anathema @ Magazzini Generali, Milano – 14 novembre 2010

«Mettiti il cuore in pace: Restless Oblivion non la faranno mai». Questo è il mantra che mi sono ripetuto innumerevoli volte (e sempre con un po’ di amarezza) da quando ho acquistato il biglietto per la data milanese degli Anathema, attualmente impegnati in una lunga passeggiata nel continente per promuovere il loro nuovo album “We’re Here Because We’re Here”, uscito il 31 maggio per Kscope e prodotto da Steven Wilson dei Porcupine Tree.

La loro svolta verso il rock intimista e atmosferico degli ultimi lavori, con l’onere del songwriting passato interamente nelle mani del chitarrista Danny Cavanagh, non mi ha mai pienamente entusiasmato, e se sui singoli brani riesco a provare fortissime emozioni, mi è ormai difficile ascoltare per intero uno degli album più recenti, malgrado l’indiscutibile qualità del materiale. Del resto gli Anathema sono musicalmente nomadi, e non si può negare che la loro grandezza artistica dipenda molto dal coraggio che hanno sempre dimostrato nell’evolversi e cambiare rotta disco dopo disco, sperimentando ed esplorando nuovi territori e mantenendosi sempre ben lontani dalla banalità e dai sentieri battuti da molti.

Così, pur sapendo quale andazzo ha preso la band dei fratelli Cavanagh, e che i loro illustri trascorsi gothic sono ormai morti, sepolti e destinati a una damnatio memoriae, non ho potuto fare a meno di comprare l’ultimo album e soprattutto l’ambito biglietto. Anche perché gli Anathema sono una delle poche band che a dieci anni di distanza dal primo acquisto (o forse dovrei dire prestito, o meglio ancora masterizzazione) continuo ad ascoltare e venerare senza sosta, e l’idea di non rivederli per la quarta volta – per giunta insieme a Psyche, che condivide la mia stessa passione da quando ci conosciamo – suonava davvero sacrilega. E no, non me ne sono pentito neanche un po’.

Psyche e io arriviamo ai Magazzini Generali poco prima delle ore 20, e al nostro ingresso siamo subito salutati dalle note del cantautore norvegese PETTER CARLSEN, che occupa il palco solo soletto con la sua chitarra, il suo microfono e il suo grande talento. Se James Taylor – quello di Fire and Rain, per intenderci – fosse nato trent’anni più tardi in Scandinavia, sarebbe venuto fuori esattamente così.

L’imberrettato Petter, un album all’attivo uscito lo scorso anno, propone un interessante “melodic and atmospheric pop with random explosions of different character” – secondo la sua articolata ma calzante descrizione – e non c’è da stupirsi che i fratelli Cavanagh abbiano profuso abbondanti elogi in suo favore, né che Petter esprima pubblicamente la sua gioia per il fatto di essere in tour (per la prima volta in Italia) con quella che definisce “una delle sue band preferite”.

Che la frase non sia una vuota lusinga lo chiarisce la musica proposta al pubblico milanese. La voce malinconica ed evocativa di Carlsen si fonde con il suono caldo e pulito della sua Gibson regalando mezz’ora di atmosfere struggenti e crepuscolari, ed è bello vedere come un uomo solo sotto i riflettori tenga in scacco l’intera platea… salvo quella parte che scalpita un po’ rumorosamente in attesa degli headliner. Rapiti e incantati, inspiriamo le sue sonorità morbide, delicate, rilassanti, fino al brano conclusivo, quando Petter esce di scena lasciando dietro di sé un tema ripetuto a loop, per poi tornare un minuto dopo a raccogliere gli ultimi applausi e immortalare il pubblico con la sua macchina fotografica. Petter, non so se comprerò mai un tuo disco, ma sappi che ti stimo davvero.

(Ringrazio Eugenio Crippa alias opethpainter per le immagini di Petter Carlsen e dei The Ocean.)

Pochi minuti dopo, un perentorio suono di sirena mette fine al sottofondo musicale a base di “Back in Black” (ma perché, mi chiedo, gli intermezzi non c’entrano mai nulla con il genere della serata?), le luci si abbassano e salgono sul palco i berlinesi THE OCEAN. L’atmosfera è cupa e tenebrosa al punto giusto, il primo brano esordisce su un tempo dispari con chitarre e voce pulita, ma nell’aria c’è qualcosa di trattenuto, di precario…

Se avessi saputo prima che i The Ocean erano passati in Italia giusto pochi mesi prima in spalla ai The Dillinger Escape Plan, avrei avuto delle aspettative ben precise da questa band, che non conoscevo se non di nome. Invece, perso in quell’inquieta ed enigmatica partitura, che cercavo di interpretare come un ideale trait d’union tra la malinconica quiete di Petter Carlsen e l’etereo post-prog degli Anathema, il violentissimo attacco distorto coronato dall’imponente growl di Loïc Rossetti mi ha colpito come un pugno – fortissimo – in pieno volto. Un’esplosione nucleare, un menhir di dodici tonnellate piombato dal cielo, con la terra che trema a migliaia di chilometri di distanza. Suoni affilati e tetradimensionali (ma i Magazzini non erano noti per la loro acustica “non ottimale”, per usare un eufemismo?), energia profusa a fiumi, luci schizofreniche, movenze spasmodiche dei musicisti. «Però, niente male questi ragazzi!», è stato il mio primo pensiero. «Eppure, che ci azzeccano?», è stato il secondo.

Questa particolarissima band ormai sulle scene da dieci anni, con cinque album all’attivo – l’ultimo “Anthropocentric” è uscito proprio in questi giorni per Metal Blade e ha già registrato ottimi incassi – propone un post metal proteiforme ed estremamente ibridato con influenze che vanno dagli Opeth (con cui sono stati in tour, e dei quali condividono una forma-canzone lunga e molto strutturata) ai Tool (dai quali hanno attinto qualcosa anche dal lato visuale-iconografico) fino alle varie forme del metal alternativo. Tante, troppe influenze, più giustapposte che amalgamate. Avventurandomi in un brano dopo l’altro – pochi, a ben vedere, anche perché molto lunghi e articolati – uno decisamente orecchiabile, un altro dall’introduzione cupissima ai limiti del doom, l’interesse lascia spazio alla perplessità, e infine alla noia. Il piacere della sorpresa è una gran cosa; ma troppa carne al fuoco sazia subito senza soddisfare il palato. O forse è solo che certe cose non si apprezzano a dovere al primo ascolto, soprattutto nel metal sperimentale, ambito del puro relativismo, che richiede sì apertura mentale ma anche una certa sintonia di fondo con la proposta musicale.

Comunque sia, due cose a loro favore vanno dette. Innanzitutto i The Ocean, pur non essendo supertecnici, suonano bene, sono accattivanti sul pulito e incredibilmente violenti sul distorto (anche se le loro due anime non sempre si conciliano come a mio avviso dovrebbero). Inoltre, la dichiarazione che avrebbero venduto il proprio merchandising al di fuori del locale per non dover applicare un aumento del prezzo, causando un duplice danno a fan e band, me li ha resi piuttosto simpatici. Anche se non mi sono strappato i capelli quando i cinque hanno lasciato il palco.

Con encomiabile puntualità, alle 21,30 gli ANATHEMA salgono sul palco accolti da una miriade di applausi, sul sottofondo di un sample del canto della prima guerra mondiale che ha dato il nome al loro ultimo lavoro in studio. Ma quando Daniel attacca con le prime note dello show, i Magazzini ritornano di colpo all’anno di grazia 1999, epoca dell’acclamatissimo “Judgement”, da cui viene riproposta la meravigliosa traccia d’apertura Deep. Io che gli Anathema li ho conosciuti proprio con questo album mi sento subito in balia dell’emozione, ancora ignaro del fatto che ben presto verrà rincarata la dose: Pitiless, Forgotten Hopes, Destiny Is Dead, inanellate una dietro l’altra come su disco. Solo che non sono nella mia stanza a riavviare per l’ennesima volta la mia logorata copia di “Judgement”: sono ai Magazzini Generali, insieme a una folla di nobili anime commosse a cui non può fregare di meno se a San Siro proprio quella sera Milan e Inter si contendono un match di cui i fan parleranno e sparleranno per settimane. Noi siamo qui perché non potremmo che essere qui, e di questo concerto parleremo per tutta la vita. Alla faccia vostra.

(Ringrazio Eva Grosso alias electricblue86 per le immagini degli Anathema.)

«Ciao Milano, va bene?», domanda Vincent in italiano, guadagnandosi ulteriori punti simpatia presso un pubblico già galvanizzato che tra sé e sé risponde: «… e a te cosa sembra?». Il ricciuto frontman dichiara subito di non essere al massimo della forma fisica, ma promette di dare il meglio di sé per la lunga esibizione che seguirà, e il pensiero ritorna alla fine del 2004, quando i fratelli Cavanagh erano venuti a Milano a proporre il loro show acustico insieme al violoncellista David Wesling, e il cantante era apparso subito provato da un forte raffreddore che non gli aveva dato tregua per l’intera esibizione. L’autunno sarà anche una stagione fantastica per comporre musica, ma certo non per la salute del buon Vincent.

Con l’ingresso in scena della graziosa Lee Douglas (sorella del drummer John e ormai da qualche anno nell’organico stabile del gruppo) si passa al repertorio dell’ultimo album, anche se i due brani riproposti – Angels Walk Among Us e A Simple Mistake, collegati dall’interlocutoria Presence – sono già conosciuti da tempo ai fan della band, essendo stati rilasciati su internet nel periodo in cui gli Anathema, dopo la chiusura della Music For Nations, erano rimasti senza contratto e senza quattrini. Pochi mesi prima era uscito “A Natural Disaster”, l’album della svolta post-prog per la band di Liverpool, e a cui viene dedicata una delle più intense sequenze del concerto, che parte dalla disperata Balance, seguita dalla sua controparte Closer (con l’ormai nota performance di Vincent al vocoder) per approdare alla sublime title-track, con una prestazione di Lee da far letteralmente accapponare la pelle. Ed è subito estasi.

Curiosamente, considerata la frequenza con cui i suoi brani sono stati riproposti nei tour degli ultimi anni, manca completamente dalla scaletta il materiale di “A Fine Day To Exit”, quindi niente Panic, niente Pressure e Release, niente Temporary Peace. È invece massiccia – una volta tanto – la presenza di “Alternative 4”, lo strepitoso album del 1998 che ha marcato la transizione dalla fase prettamente gothic metal al rock intimista-decadente poi ulteriormente affinatosi negli anni.

A questo album è dedicata la sequenza successiva: la volitiva Empty, gradita eccezione rispetto alla media piuttosto soffusa dei brani dello show; la sofferta ed evocativa Lost Control, che suscita una straordinaria partecipazione da parte del pubblico; la gelida e rassegnata Destiny, con il buon Les Smith che accompagna alle tastiere il soffuso arpeggio di chitarra acustica; e, per concludere, quel breve e romantico distillato di disperazione che risponde al nome di Inner Silence, probabilmente una della vette poetiche più alte mai raggiunte da Danny Cavanagh.

Berretto in testa e sorriso perenne, Danny occupa il posto alla destra di Vincent e sembra il vero motore e presenza carismatica della band; all’estremità opposta Jamie, che lasciò gli Anathema dopo i primissimi esordi death-doom per poi rientrare ai tempi di “A Fine Day To Exit”, fa il suo mestiere con plettro e precisione, non prende mai la parola, ma sembra divertirsi davvero molto.

Dopo il tuffo nel passato si torna a capofitto a “We’re Here Because We’re Here”, di cui viene riproposta la parte conclusiva, che da Get Off Get Out (che dal vivo risulta fortunatamente più solida e meno opaca rispetto alla versione in studio) prosegue per Universal e sfocia nella lunga e intensa strumentale Hindsight. Terminata la lunga sequenza, con il nuovo album è discorso chiuso. Bene da un lato, per quanto mi riguarda, ma d’altro canto è un peccato non aver modo di sentire un brano della levatura di Thin Air, riproposta invece nelle altre date italiane.

Un rapido salto alla fine negli anni Novanta con l’entusiasmante Judgement, con quel finale che ogni volta fa venir voglia di buttarsi nella mischia e prendere a spallate qualcuno, e poi si torna ad “A Natural Disaster” con l’immancabile Flying. «If you feel like singing, please do», invita Vincent in modo molto inglese in uno dei suoi sporadici intercalari, e naturalmente il coro sul ritornello è all’unisono. Dopo questo definitivo coup de grâce ai tentativi del pubblico di contenere l’emozione, uno dopo l’altro i musicisti abbandonano il palco, sull’eco del tema conclusivo. Ma ben presto Danny, solo soletto, ritorna a occupare il suo angolo di palcoscenico con la sua chitarra acustica.

La sua voce suadente risulta un po’ troppo bassa per i timpani miei e di Psyche, dato che siamo abbastanza indietro rispetto al fronte dei fan, e il vocio della platea copre la maggior parte del suo discorso interlocutorio. Danny dedica la canzone a suo fratello malato (cotanto amore fraterno è quasi commovente, per giunta in un contesto dove avere gli occhi umidi è tutt’altro che inusuale), ai numerosi musicisti che lo hanno influenzato, e presenta un brano che «tutti i politici dovrebbero sentire, come voi italiani dovreste sapere». Il riferimento alla politica, a causa del brusio, non mi è risultato molto chiaro; in ogni caso, lo sgradevole pensiero della nomea internazionale del nostro primo ministro viene spazzato via in un baleno dalle note iniziali della epocale Wish You Were Here dei Pink Floyd, band letteralmente adorata dai nostri – oltre che piuttosto influente nella costruzione del loro sound da “Judgement” in poi – che raramente mancano di omaggiarli durante i loro concerti. Neanche a dirlo, il pubblico in visibilio applaude e canta all’unisono (del resto questa la sanno anche le pietre) e l’emozione è ancora una volta così forte che mi chiedo come le coronarie dei presenti abbiano possano reggere senza problemi a un concerto di siffatta intensità.

Sulla scia dell’entusiasmo collettivo, Danny attacca con Are You There? – brano amato dai più ma che personalmente non mi ha mai detto molto, anche se questa volta sono riuscito ad apprezzarlo persino io – e poi, raggiunto sul palco da Lee Douglas, duetta con lei su una versione interamente acustica di Parisienne Moonlight. Non ho parole.

L’intermezzo acustico sembra concepito per ritardare il ritorno in scena di Vincent e degli altri, concedendogli qualche minuto di tregua aggiuntivo per riprendersi dai suoi malanni (malanni che sospetto non siano passati tanto in fretta, dato che appena l’indomani mattina è stata cancellata la data di Graz prevista per il martedì sera). Ma quando la band riguadagna le proprie posizioni sul palco, il buon Vincent, pur avendo giustamente rinfoltito il suo scarno abbigliamento, non sembra certo uscito da un reparto malattie infettive.

L’annuncio dell’imminente esecuzione di «one of our old songs» fa percettibilmente accelerare il mio battito cardiaco, e anche se la speranza ingiustificata di sentire qualcosa da “The Silent Enigma” non stenta a sopirsi, le prime note di Angelica mi provocano tali benefiche sensazioni che non perderò neanche tempo per cercare di descrivere: chi conosce la canzone, già sa; gli altri si comprino “Eternity” e non escano di casa finché non l’hanno imparata a memoria, razza di perdigiorno.

Sono passate più di due ore dall’inizio dello show, e purtroppo è ora di passare alla conclusione, e un concerto degli Anathema non è davvero concepibile senza la straziante e meravigliosa One Last Goodbye, dedicata alla defunta madre dei Cavanagh e da anni diventata uno dei brani più universalmente apprezzati, e strappalacrime, della band di Liverpool. Ma il concerto non può finire qui. No. Gli Anathema sono abbastanza saggi da capire che concludendo una scaletta con una tale ondata di dolore si renderebbero responsabili di un potenziale suicidio di massa fuori dai cancelli dei Magazzini Generali. E allora che cosa fanno? Shroud of False e, naturalmente, Fragile Dreams. E viene giù il mondo.

Altro che soldi spesi bene, mi dico. Mi sento quasi un ladro per aver goduto di tanta qualità (e quantità) in cambio di un misero biglietto. Certo, l’esecuzione dei chitarristi come sempre non è stata impeccabile… ma questa è sempre la solita menata da chitarrista invidioso che tiro fuori appena possibile, la realtà è che tutto è stato maledettamente ben riuscito: scaletta, suoni, intensità, resa scenica, pure il ballettino finale al momento di prendere congedo.

Che altro dire? Al diavolo il mio mantra: Restless Oblivion, per quanto sia meravigliosa, è solo una canzone… E pensare che, se invece di nascere a Milano fossi nato in una qualsiasi altra zona d’Italia, sarei potuto andare a vederli all’Estragon di Bologna, o all’Alpheus di Roma, o al New Age di Roncade, e in tutti e tre i casi avrei assistito alla riproposizione integrale dell’ultimo album (cosa che, come già ripetuto in più di un’occasione, mi dà piuttosto sui nervi, in particolare con album che non conosco o non mi piacciono). Certo, se fossi nato ad Anversa o a Cracovia avrei trovato in scaletta niente meno che A Dying Wish, ma non è il caso di puntualizzare: è stato il più bel concerto degli Anathema visto finora (anche a detta di Psyche). We were there because we had to be there. E ci saremo anche in futuro. Sempre.

E ora, in religiosissimo silenzio, mi congedo sulle note di uno dei brani più toccanti di questa lunga ed emozionante performance: Lost Control. E ho detto tutto.
  

SETLIST 

Deep (da “Judgement”, 1999)
Pitiless (da “Judgement”, 1999)
Forgotten Hopes / Destiny Is Dead (da “Judgement”, 1999)
Angels Walk Among Us / Presence (da “We’re Here Because We’re Here”, 2010)
A Simple Mistake (da “We’re Here Because We’re Here”, 2010)
Balance / Closer (da “A Natural Disaster”, 2003)
A Natural Disaster (da “A Natural Disaster”, 2003)
Empty (da “Alternative 4”, 1998)
Lost Control (da “Alternative 4”, 1998)
Destiny (da “Alternative 4”, 1998)
Inner Silence (da “Alternative 4”, 1998)
Get Off, Get Out / Universal / Hindsight (da “We’re Here Because We’re Here”, 2010)
Judgement (da “Judgement”, 1999)
Flying (da “A Natural Disaster”, 2003)

INTERMEZZO ACUSTICO
Wish You Were Here (cover dei Pink Floyd)
Are You There? (da “A Natural Disaster”, 2003)
Parisienne Moonlight (da “Judgement”, 1999)

ENCORES
Angelica (da “Eternity”, 1996)
One Last Goodbye (da “Judgement”, 1999)
Shroud of False / Fragile Dreams (da “Alternative 4”, 1998)

FORMAZIONE 

Vincent Cavanagh (voce, chitarra) – Daniel Cavanagh (chitarra) – Jamie Cavanagh (basso) – Les Smith (tastiere) – John Douglas (batteria) – Lee Douglas (voce femminile)

~ di dK su 24 novembre 2010.

Una Risposta to “Anathema @ Magazzini Generali, Milano – 14 novembre 2010”

  1. “non si può negare che la loro grandezza artistica dipenda molto dal coraggio che hanno sempre dimostrato nell’evolversi e cambiare rotta disco dopo disco, sperimentando ed esplorando nuovi territori” Li adoro anche per questo: mai banali.

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